Rispondere ai dazi di Trump e le altre sfide del Trumpismo

14 Apr 2025

–  Tempo di lettura: 7 minuti

In queste settimane di fine marzo e inizio aprile 2025, la politica del governo degli Stati Uniti d’America a molti è apparsa incomprensibile.

In questi giorni si sono diffusi numerosi retroscena e ipotesi di complotto che vanno dalla manipolazione del mercato di Trump, all’arricchimento dei suoi collaboratori e dei suoi parenti., alla semplice approssimazione per incompetenza, al bullismo internazionale

In questa sede non terremo conto di queste voci e ci rifaremo solo ai fatti e alle possibili risposte da parte delle economie europee ed in particolare alla risposta della Unione Europea.

Occorre in primo luogo evidenziare che la politica commerciale nei rapporti con l’estero è materia che gli Stati aderenti hanno delegato alla Unione Europea, pertanto tutte le ipotesi di trattativa separata e bilaterale tra singoli Stati europei e Stati Uniti d’America derivano da ignoranza del diritto comunitario o da malafede politica.

Il Presidente Trump è l’espressione del malessere dell’America profonda. La gran parte degli elettori di Trump lo vota in quanto ha trovato in lui il “perfetto” rappresentante delle proprie istanze di insofferenza nei confronti del resto del mondo. Con una narrativa aderente al proprio elettorato di riferimento, Trump ha saputo incarnare queste istanze. Spesso si ritiene che una volta che Trump avrà terminato il proprio mandato, tutto tornerà come prima della sua presidenza. La brutta notizia è che non sarà così, in quanto Trump non è la causa del trumpismo, ma il suo effetto. La causa del trumpismo sono gli elettori americani, prevalentemente concentrati nel Mid West, i quali, senza assistenza medica, senza assistenza sociale, con servizi pubblici inesistenti o ridotti all’osso, si chiedono perché debbano soffrire una vita grama per consentire agli europei in prima istanza, ma poi anche a tutti quelli che sono beneficiati dai soldi degli Stati Uniti, di poter godere di vite molto più comode e sicure, ai loro danni.

Da questa semplice, ma cruda narrazione, nascono le soluzioni caldeggiate dell’America profonda, far pagare a tutti i profittatori (Canadesi, Messicani, seppur per altre ragioni, ed Europei in prima istanza e a seguire tutti gli altri) la protezione militare e il vantaggio economico di far parte dell’impero americano.

In merito alla protezione militare, la richiesta degli Stati Uniti d’America è stata quella che ciascun alleato (più corretto sarebbe dire satellite) all’interno della NATO aumentasse le spese militari annuali, passando da un magro 1,8 – 1,9% annuo ad almeno un 3%, meglio se 5% annuo del PIL. Ad onor del vero queste richieste non sono state formulate da Trump per la prima volta, ma erano già state avanzate da Biden e prima di Lui da Obama, ma i toni usati dai precedenti Presidenti erano certamente meno definitivi e nessuno di loro aveva minacciato i Paesi della Nato di non proteggere gli alleati in caso di attacco da parte di una forza militare non NATO (ovvero la Russia), come ha fatto esplicitamente Trump.

 Per quanto riguarda i presunti vantaggi che secondo la narrazione trumpiana gli alleati degli Stati Uniti avrebbero per il fatto di appartenere all’impero americano, il modo per far finalmente pagare “gli scrocconi” secondo la definizione del Vice Presidente J.D. Vance (certamente il più ideologico del duo Trump Vance e per questo il più pericoloso), sono i dazi.

Il concetto è: se vuoi far parte del mio mercato e del mio impero commerciale, finanziario e industriale devi pagare, perché fino ad oggi hai approfittato delle condizioni che gli Stati Uniti hanno assicurato con le proprie flotte (globalizzazione), il proprio esercito, la propria moneta, la propria politica ecc., ora basta, se vuoi partecipare alla festa devi pagare il biglietto e il biglietto si paga con i dazi.

L’applicazione pratica di questi concetti semplici è stata la formuletta in base alla quale l’aliquota dei dazi è stata rapportata al disavanzo commerciale degli Stati Uniti rispetto a ciascuno stato estero, fatta eccezione per la Unione Europea che è stata considerata come un unico soggetto geografico, a conferma che una volta tanto la Unione Europea non è stata considerata una mera associazione di Stati, ma come un vero e proprio soggetto unitario.

Tornando alla formula usata dall’Amministrazione Trump per calcolare i dazi per ciascun Paese, occorre considerare il deficit commerciale degli Stati Uniti verso un determinato paese (cioè la differenza tra quanto gli Usa acquistano da un paese e quanto vendono a quel paese), dividerlo per il totale delle importazioni statunitensi (ovvero il valore complessivo dei beni che gli Usa acquistano da quel paese), e poi dividere per 2 il risultato.

L’esempio più utilizzato dagli analisti è stato quello relativo al calcolo dei dazi all’Unione Europea, nel 2024 gli Stati Uniti hanno importato dall’Unione Europea beni per un valore di 605,8 miliardi di dollari, mentre hanno esportato verso l’Unione Europea merci per 370,2 miliardi, generando un deficit commerciale americano di 235,6 miliardi (605,8 – 370,2 = 235,6). Questo deficit è a favore dell’Unione Europea, che vende agli Usa più di quanto acquista. Applicando la formuletta, si divide 235,6 per 605,8, ottenendo 0,39 (o 39%), che diviso per due diventa 19,5%, arrotondato al 20%. Questo 20% è il dazio imposto alle merci europee, il che significa che un prodotto europeo del valore di 100 dollari costerà 120 dollari negli Stati Uniti.

La formula completa include l’elasticità della domanda di importazioni (ε), che misura quanto variano le importazioni al cambiare dei prezzi, e il coefficiente di trasmissione dei dazi (φ), che indica quanta parte del dazio si trasferisce effettivamente sui prezzi finali. L’amministrazione statunitense ha scelto un’elasticità pari a 4 (significativamente superiore al valore di 2 indicato dagli studi recenti) e un coefficiente di trasmissione di 0,25 (molto basso rispetto all’esperienza storica). Queste scelte parametriche, secondo il Financial Times, appaiono calibrate per ottenere risultati predeterminati piuttosto che per riflettere la realtà economica, portando a tariffe che oscillano dallo 0% al 99%, con una media ponderata del 41% a livello globale e una variabilità statistica (deviazione standard) tra 20,5 e 31,8 punti percentuali.

Ciò che caratterizza queste scelte è l’applicazione politica di questa formula al commercio internazionale. La maggior parte degli studiosi ritengono che l’utilizzo di un’equazione elementare per determinare tariffe che impattano su fenomeni economici complessi, presentando una scelta politica come se fosse un calcolo oggettivo, non sia corretta. L’amministrazione Trump ha convertito la sua visione politica sul commercio internazionale in una formula, partendo dal presupposto che il deficit commerciale sia sempre indicativo di uno squilibrio da correggere. Il Financial Times riporta che questa visione contraddice la teoria economica moderna, secondo cui gli squilibri commerciali sono spesso il risultato naturale di differenze strutturali tra economie, non necessariamente di barriere o pratiche scorrette. Inoltre questa formula non tiene conto del valore dei servizi scambiati, in cui quasi sempre gli Stati Uniti sono in surplus. Se si considerasse nella bilancia commerciale anche il valore dei servizi, il disavanzo complessivo degli Stati Uniti sarebbe molto più contenuto, se non addirittura positivo. Questa è una ulteriore distorsione, a fini politici, del calcolo dei dazi, a conferma del fatto che dietro questi dazi non vi è altra intenzione se non quella di far pagare a tutti coloro che intendono commerciare con gli Stati Uniti lo “status” di potenza mondiale assoluta.

Una volta completata questa sfiancante costruzione politico economica, nel giro di 48 ore è stato tutto azzerato (meglio allineato al 10% di dazi per tutti senza alcuna distinzione), fatta eccezione per la Cina, verso la quale i dazi rimangono del 124%, una totale assurdità che colpisce in primo luogo la stessa manifattura delle grandi società americane (Apple, Tesla, Nike, solo per citare le principali società che hanno grandissime strutture produttive in Cina) che sarebbero  colpite dai dazi nel momento in cui importassero in America i propri ben finiti prodotti in Cina e proprio per questo Trump è dovuto intervenire nuovamente per disporre l’esclusione dei dazi per i beni importati dalla Cina se ivi prodotti da società statunitensi, dimostrando contemporaneamente il dilettantismo con  cui sono stati costruiti i dazi e l’illogicità di escludere i dazi per le imprese  americane che producono in Cina, se l’obiettivo dichiarato di questi dazi è riportare la manifattura negli Stati Uniti. Come si vede un pasticcio sempre più inestricabile. Ma perché Trump ha modificato di 180 gradi il proprio orientamento in meno di 48 ore? I motivi probabilmente sono due: la volontà di trattare in base alla tattica del bullo, io attacco e poi mi regolo in base a come la vittima reagisce e il timore che le principali economie danneggiate dai dazi potessero allearsi per attaccare il debito americano, seguendo quanto fatto dalla Cina. La Cina infatti ha rapidamente riversato sul mercato 50 miliardi di dollari di titoli del debito pubblico americano, non un granché se si considera che il debito pubblico americano ammonta a circa 36 trilioni di dollari, di cui la Cina possiede circa 760 miliardi di dollari, mentre oltre l’85% del debito è in mano alla FED. Tuttavia questo movimento di vendita, sebbene non rovinoso, ha indotto altri Stati a seguire la Cina e queste vendite hanno fatto aumentare il rendimento del debito pubblico americano fino al 4,5% annullando quanto in precedenza recuperato dalla amministrazione Trump a riduzione del costo medio del debito americano e soprattutto riducendo la fiducia degli investitori nella sostenibilità del debito pubblico americano.

 E quindi cosa dovrebbero fare i Paesi della Unione Europea?

Rispondere certamente.

Prendere atto che i dazi sono già in essere (10% a carico di tutti i Paesi del Mondo).

Rispondere applicando un dazio generalizzato del 10%, senza attendere che passino i 90 giorni di moratoria decisa da Trump.

Prepararsi ad applicare i dazi soprattutto ai servizi americani distribuiti dalla grandi imprese statunitensi come OpenAi, Google, Meta. Paypal, Amazon, ecc.., per colpire tutto l’entourage degli oligarchi di Trump.

Applicare dazi molto elevati alle auto elettriche importate dagli Stati Uniti per colpire Tesla e Musk.

Non sovvenzionare le imprese colpite dai dazi in quanto questo vorrebbe dire dare ragione a Trump e trasferire il peso dei dazi dai cittadini americani ai cittadini italiani.

Occorre mettere a disposizione delle imprese colpite dai dazi, risorse per la formazione del personale, la ristrutturazione dei processi produttivi, la ricerca di nuovi mercati, ma non distribuire loro risorse a fondo perduto per recuperare la redditività persa con i dazi, perché questa sarebbe una politica di mera sussistenza. Occorre puntare sul recupero di produttività, certo è molto più difficile e gravoso, ma il recupero di produttività è definitivo, mentre le sovvenzioni durano solo per un esercizio, riproponendo il problema nel successivo esercizio.

Abbandonare il piano Green Deal, sulla base della considerazione che il sacrificio dei Paesi dell’Unione Europea non servirà a nulla, neanche a rallentare, se non per una frazione quasi irrilevante, l’evoluzione climatica sfavorevole in corso, ed eliminare il termine del 2035 per la produzione di motori a combustione interna, nonché riconvertire i fondi destinati alla transizione verde alla ricerca e sviluppo di natura informatica, satellitare, biologica, medicinale, sanitaria, ecc. in modo da far tornare attrattiva l’Unione Europea per i ricercatori e gli scienziati di tutto il mondo e dare una scossa alla produttività continentale, ormai da troppi anni stagnante. Per realizzare una vera rivoluzione verde, l’unico percorso possibile ed efficace risiede nel miglioramento della tecnologia e della produttività dei Paesi in via di sviluppo, i quali raccolgono oltre l’80% della popolazione della Terra. Se questi Paesi non evolvono verso tecnologie più compatibili con l’ambiente, lo sforzo dei Paesi europei è assolutamente irrilevante a livello globale.

Predisporre un piano di investimento in filiere militari che consentano ai Paesi della Unione Europea di rendersi progressivamente indipendenti dal mercato americano delle armi. In un primo periodo (della durata di non meno di 7-10 anni) i Paesi dell’Unione Europea non potranno fare altro che rivolgersi al mercato americano o di quei soggetti che hanno filiere produttive delle armi già operative (Corea del Sud, Francia, Turchia, ecc.), ma questo periodo dovrà essere utilizzato per sviluppare contemporaneamente le proprie filiere di produzione militare.  Pertanto 800 miliardi divisi per i 27 Paesi della Unione Europea sono pochissimi soldi, ne serviranno molti di più se vorremo renderci indipendenti dal punto di vista militare dagli Stati Uniti e nello stesso tempo essere sufficientemente solidi militarmente da dissuadere altri soggetti dalla tentazione di attaccarci. Per chi si lamenta in merito alla inutilità o dissipazione di risorse in armamenti, occorre ricordare che ciò che si acquista con le armi non è la capacità di attaccare altri Stati, ma semplicemente assicurare ai propri cittadini sicurezza e difesa dei confini nazionali. Molto più complessa della questione dei materiali militari è la questione delle risorse umane da destinare alla difesa e sicurezza del territorio nazionale. Gli italiani sono pochi e senza alcuna voglia di fare la guerra, per una popolazione con una età mediana di 48 anni, in costante crescita, la guerra, ma anche il semplice servizio militare, appare qualcosa di lontano e inconcepibile. Quindi potrebbe essere inutile spendere miliardi di euro in armamenti se poi non vi sono le risorse umane per utilizzarle.

Il ruolo dell’Unione Europea in questo processo di costruzione di filiere produttive dovrebbe essere quella di un coordinatore di alto livello che garantisca la collaborazione politica, economica, strategica, commerciale, produttiva tra gli Stati Membri, al fine di pervenire alla costruzione di un sistema di collaborazione militare, una NATO Europea eventualmente utilizzando le strutture, gli statuti e i regolamenti dell’organizzazione attuale. L’obiettivo iniziale per l’Unione Europea sarebbe quello di sviluppare le collaborazioni tra gli Stati, sperabilmente due o massimo tre Stati per lo sviluppo di processi produttivi di nuovi armamenti ai quali si dovrebbero via via aggregare gli altri Stati Membri, come già avvenuto per progetti militari di successo in ambito europeo (fregate fremm, tornado, ecc.).

Tornando alle risorse umane occorre superare l’inverno demografico che caratterizza l’Italia e che sembra non avere fine. Come invertire la rotta? Certamente non facendo riferimento solo alle donne italiane in quanto ci vorrebbero almeno 70/80 anni da oggi, qualora ogni donna partorisse almeno 2,5 figli, per invertire l’attuale tendenza.

 E’ invece necessario far ricorso alla immigrazione in modo massiccio, organizzando centri di raccolta e prima istruzione per poi non integrare, ma assimilare i nuovi arrivati, o meglio la seconda generazione che nascerà in Italia e dovrà essere assimilata e non semplicemente integrata. Come è noto vi è una differenza netta tra integrazione e assimilazione, la prima prevede che l’immigrato, anche nelle successive generazioni, mantenga comunque ben vive le tradizioni, la lingua, i contatti e le relazioni con la Nazione di provenienza. La seconda prevede invece che a partire dalla seconda generazione di immigrati, la prima generazione che ha fatto il viaggio non è assimilabile, il nuovo cittadino non debba mantenere rapporti con le tradizioni, la lingua, i contatti e le relazioni con la Nazione di provenienza, se non di tipo turistico-nostalgico.

Ovviamente l’assimilazione è un processo sociale molto più violento della integrazione, perché non prevede ritorno alla patria di provenienza, ma sostituisce la patria di provenienza con quella di approdo, la quale, nel sentire intimo dell’immigrato di seconda generazione, diviene la propria patria di appartenenza.

Gli italoamericani di seconda, terza e quarta generazione si sentono intimamente americani e in caso di guerra tra Stati Uniti e Italia non avrebbero dubbi e si arruolerebbero nell’esercito americano senza alcun rimorso. Del resto la Seconda Guerra Mondiale ce ne ha dato ampia dimostrazione. Nessun soldato americano di origine italiana ha mai pensato di tradire il proprio esercito per arruolarsi nell’esercito italiano alleato dei tedeschi.

Il rapido esame di queste condizioni dimostra che il mondo al quale eravamo abituati non esiste più e non ritornerà più. Dovremo quindi uscire dalla nostra bolla di sospensione della storia e rientrare nel flusso della storia, che noi eravamo convinti fosse finita, ma che non si è mai fermata e ora è arrivata a bussare alla nostra porta. Sarà un risveglio faticoso e difficile, ma necessario. Purtroppo il tempo stringe e le decisioni dolorose, ma necessarie, vanno assunte e trasformate in azioni concrete il prima possibile.

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